Fu in un mattino di cielo limpido, con una leggera bruma che attenuava i contorni della città, che salii in cima alla Torre Eiffel. Da lassù, Parigi si stendeva sotto di me come un mare di pietra, agitato da secoli di lavoro e di ambizione.

Le vie correvano come vene in un corpo ancora vivo, le cupole e i ponti emergevano con una precisione quasi crudele. Provai un misto di ammirazione e di inquietudine: l’uomo costruisce come se volesse sfidare il tempo, ma sa benissimo di non potervi riuscire. Pensai, guardando quell’insieme immenso, che gli dèi antichi, cacciati dal Parnaso, avrebbero finito per trovare qui un rifugio più comodo, dove osservare gli uomini senza farsi vedere.
L’idea mi fece sorridere: Parigi non chiede adorazione, la pretende. Ed era proprio questa sicurezza di sé che mi colpiva più del panorama. Scendendo, il caso – o meglio la curiosità, che è la sola forma rispettabile del peccato – mi portò verso Pigalle e il Moulin Rouge.
Là, in un edificio illuminato da luci insistenti, l’umanità sembrava celebrare solo se stessa. Gambe agili, piume leggere, una musica ostinata: tutto congiurava per far dimenticare il prezzo d’ingresso e, soprattutto, il prezzo del domani. Guardavo quella festa con una sorta di tenerezza distante. Ognuno si credeva libero, ma tutti seguivano lo stesso ritmo. Da Pigalle mi spinsi verso Montparnasse. Il nome promette poesia; oggi, invece, nutre soprattutto la vanità degli artisti e la fame dei clienti dei caffè. Nei bistrot, piccoli filosofi e pittori di temperamento discutono di libertà e di vino come se fossero la stessa cosa. Montmartre mi accolse con le sue scalinate e le sue botteghe d’artisti. La salita impone una certa sincerità: il respiro accelera, i pensieri si fanno più semplici. In cima, la basilica del Sacré-Cœur, bianca e severa, domina Parigi come una preghiera scolpita nella pietra.
Guardando la città da quell’altezza, capii che il disordine, visto da lontano, può assumere l’apparenza dell’armonia. Forse accade lo stesso nelle nostre vite: ciò che ci sembra caotico, a distanza, rivela un disegno. Nei Giardini del Lussemburgo trovai una calma diversa. Qui la natura è tenuta sotto controllo, ma non soffocata: alberi allineati, sentieri chiari, panchine collocate con una logica che rassicura. Lo spirito vi si muove con più facilità che in chiesa. Seduto vicino alla fontana di Maria de’ Medici, osservai un bambino che faceva avanzare una barchetta e un vecchio che seguiva la piccola vela con lo sguardo. Mi parvero due età della stessa speranza. Pensai che quella superficie d’acqua rifletteva non solo il cielo, ma il nostro modo di rimanere a galla sul tempo. Passeggiando senza fretta, il Palais du Luxembourg si impose con la sua massa tranquilla.
Oggi ospita il Senato francese, e la sua architettura severa si affaccia su giardini curati con una disciplina quasi militare. I viali alberati, le aiuole fiorite, le statue isolate nelle siepi danno al luogo l’aria di un salotto all’aperto. Qui il potere e il passeggio convivono senza urtarsi: i legislatori decidono all’interno, i flâneur si perdono nei pensieri all’esterno. Notre-Dame de Paris, in mezzo alle acque della Senna, mi apparve come una testimone ostinata di epoche che non esistono più. Le sue guglie, segnate dal tempo e dalle ferite recenti, salgono ancora verso il cielo come mani che non si arrendono. Entrando, non avvertii tanto la fede quanto il peso dei secoli.
L’uomo vi appare piccolo, ma non annientato: sotto quelle volte, la sua fragilità acquista una certa nobiltà. Al Musée des Invalides, di fronte alla tomba di Napoleone, provai un sentimento difficile da definire. L’enormità del sepolcro contrasta con la semplicità brutale di una vita intera consacrata alla conquista. La gloria, ridotta a una cassa di porfido, sembra riposare male. Guardando la cupola dorata scintillare al sole, mi chiesi se non fosse uno spreco il fatto che gli uomini mettano tanta energia nel dominare gli altri e così poca nello sforzo di capirli. Lungo la Senna, Parigi si contemplava nei propri riflessi.
Le facciate si duplicavano nell’acqua, perdendo qualcosa della loro arroganza. Le bancarelle di libri, sulle rive, sembravano piccole fortezze di carta, ciascuna con i propri prigionieri in attesa di un lettore. Una brezza discreta mi accompagnò fino ai Champs-Élysées. Là, tra negozi, alberi e automobili impazienti, riconobbi una passerella della vanità moderna. Il rumore era diverso da quello delle carrozze di un tempo, ma la fretta era identica. Al Louvre, la bellezza sembrava voler occupare tutto lo spazio disponibile. Le statue, i quadri, i corridoi interminabili: ogni cosa chiedeva un’attenzione che nessun uomo può concedere interamente.
Compresi che gli artisti sono forse i più tenaci tra gli uomini: tentano di salvare ciò che il tempo cerca di cancellare. Al Musée d’Orsay, l’antica stazione ferroviaria trasformata in museo faceva pensare a un treno che non parte più. Monet e Degas guardavano la realtà con una pazienza diversa dalla mia, attraverso la luce. L’impressionismo mi parve una forma di dubbio applicato ai colori. Al Musée de l’Orangerie, le Ninfee di Monet mi accolsero in un silenzio sorprendente. Le pareti, coperte d’acqua dipinta, davano l’impressione che il tempo avesse smesso di avanzare per qualche minuto. Il pensiero si concesse il sollievo che si prova quando una sensazione finalmente coincide con un’immagine. Al Pantheon, i grandi della Francia riposano secondo un ordine deciso da altri. Ogni tomba è una frase che la nazione pronuncia su sé stessa. A pochi passi, la chiesa di Saint-Étienne-du-Mont offre un’intimità diversa, quasi domestica. Là, fede e ragione non si combattono: si osservano in silenzio. All’Arco di Trionfo, la folla scorreva come un fiume ostinato, convinta di muoversi verso qualcosa che valga la pena. Guardando la struttura massiccia sopra il vuoto centrale, pensai che ogni monumento alla vittoria nasconde, al suo interno, una sconfitta meno visibile. La casa di Rodin, con i suoi giardini popolati di statue che sembrano respirare, mi riportò all’essenziale.
Il Pensatore, curvo su sé stesso, mi parve il ritratto della nostra lotta con le idee: il corpo si irrigidisce, la mente non si decide. Poiché ogni viaggio a Parigi sembra richiamare Versailles come un obbligo, vi andai. Il palazzo del Re Sole si estende in una successione di sale dove gli specchi hanno visto più vanità che sincerità. Al Trianon, pensato come rifugio, percepii soprattutto il desiderio di fuggire dal peso della corte.
I giardini di Le Nôtre, così perfetti, mi fecero pensare che la Francia ha trasformato il gusto in una forma di disciplina. Le fontane parlavano più chiaramente di molti oratori, i cespugli tagliati seguivano una geometria che non ammetteva debolezze. Al tramonto, però, l’oro del sole confondeva tutto, e anche la ragione si lasciava sedurre. Al ritorno, guardando Parigi da lontano, la città mi apparve come una mente in continuo movimento. La Torre Eiffel, che al mattino mi era sembrata un capriccio di ingegneri ambiziosi, ora dominava il paesaggio come un punto fermo. Compresi che Parigi non vive soltanto di ciò che possiede, ma di ciò che immagina. Mentre il treno dei pensieri mi riportava verso il suo cuore, ebbi la certezza che, se la filosofia volesse scegliersi una capitale sulla terra, difficilmente ignorerebbe questo nome.